Se non ci fossero featuring lo ascolteresti lo stesso?
Dischi urban con palate di ospiti, suonano come playlist e ricordano quel podcast italiano che se non ci fosse l'ospite probabilmente non ti cacheresti nemmeno.
I dischi di rap italiano (o urban, che dir si voglia) hanno un grosso problema di featuring e questo è sempre più evidente: gira e rigira finiamo per beccarci sempre i soliti 4 stronzi per assicurare gli streaming e le hit. Se non ci sono 10 collaborazioni in 13 tracce non si pubblica, signora mia.
Il fatto che se ne stia accorgendo lo stesso pubblico è un campanello d’allarme importante ma voglio andare ad estendere la riflessione su un altro paio di punti che vedremo tra un attimo.
Il problema è importante: troppi featuring nei dischi, troppo ridondanti, scarsamente qualitativi, volti solo a timbrare il cartellino e colmare carenze artistiche alla radice. Del resto, come ci ha anche suggerito la recente serie TV Netflix Nuova Scena, il ricambio generazionale non sembra dei più confortanti.
Ma dimmi te se devo dare ragione a Rondo
Lo spunto finale per scrivere due righe sull’argomento me lo offre Rondodasosa con un post su Instagram bello in caps lock. Recita, testuale:
In un periodo storico della musica italiana dove ogni disco presenta sempre gli stessi feat e gli stessi suoni, dove un album per essere definito hit deve almeno certificare oro alla prima settimana o essere primo in classifica FIMI ho scelto di fare a modo mio senza seguire le regole del mercato.
La scelta di non avere feat è il motivo per il quale qualsiasi sarà il risultato dell’album ne sarò orgoglioso perché vorrà dire che sarò riuscito a dimostrare quanto valgo con le mie mani e le mie forze.
Non male per essere non scarso ma quantomeno sopravvalutato. Guarda un po’, mi tocca dare ragione a Rondo. Sì perché la domanda di apertura di oggi suona quasi retorica, io sono più che convinto che i dischi in uscita oggi (non tutti, ovviamente) porterebbero a casa numeri e feedback molto al di sotto delle aspettative se non fossero belli inzuppati di collaborazioni.
E anche su questi ultimi è il caso di fare ulteriore riflessione perché la macchina si è inceppata sui soliti nomi: cambi artista, cambi album, stesse collaborazioni in tracklist e avanti con lo stampino.
Featuring starter pack
Proviamo a fare mente locale sulle uscite recenti. Quanta gente ci hanno infilato dentro?
Rose Villain [Radio Sakura - 5 feat in 12 tracce]: Madame, Ernia, Bresh, thaSup, Guè
Kid Yugi [I Nomi del Diavolo - 10 feat in 14 tracce]: Tony Boy, Artie 5ive, Tedua, Papa V, Noyz Narcos, Ernia, Simba La Rue, Geolier, Fido Guido, Sfera Ebbasta
Sacky [Balordo - 10 feat in 15 tracce]: Emis Killa, Lacrim, Luchè, Artie 5ive, 167 Gang, Rame, Slings, Niky Savage, Baby Gang, Rondodasosa
Tony Effe [Icon - 14 feat in 17 tracce, 2 delle quali già edite]: Sfera Ebbasta, Geolier, Simba La Rue, Lazza, Capo Plaza, Ghali, Bresh, Tedua, Side, Pyrex, Guè, Rose Villain, Emma, Takagi e Ketra
Rhove [Popolari - 7 feat su 13 tracce]: Emis Killa, Capo Plaza, Sfera Ebbasta, Jul, Guè, Kuremino, Oxlade (o come cazzarola si pronunci)
Baby Gang [nuovo progetto - 11 feat in 10 tracce]: Paky, Blanco, Marracash, Emis Killa, Jake La Furia, Geolier, Gemitaiz, Madman, Lazza, Tedua, Sfera Ebbasta
C’è un ripetersi di nomi che diventa stucchevole tempo zero, se pensi che esce più o meno un album a settimana e che gli album, ormai, sono tutti così: Guè, Geolier, Sfera Ebbasta, Lazza, Baby Gang, Tedua e questo Simba La Rue che devono riqualificare a tutti i costi e farci ingoiare a forza.
Solo non si vedono i due leocorni (cit.)
Cristo Santo.
A proposito di Rhove: due parole su quel suo Red Bull 64 Bars di raro imbarazzo?
I dischi sono diventati playlist collaborative
Una considerazione importante da fare è che non è solo la quantità di featuring a preoccupare in se e per se (greve constatare come le collabo si pappino metà della tracklist), quanto piuttosto la qualità media dei medesimi che gioca a ribasso. Non aggiungono chissà che plus al pezzo, è più un timbrare il cartellino.
Aggiungiamo un altro aspetto importante: l’anatomia degli album come li conoscevamo è cambiata in modo profondo. Sempre meno concept, sempre più molteplicità di generi per accontentare tutti, singoli sfusi e dilazionati nel tempo per incrementare la continuità di pubblicazione ed ecco che tutti quei punti messi insieme ci dicono come si sia più vicini a playlist collaborative che album veri e propri.
Non so te, ma io credo sia venuto meno anche un ascolto lineare della stessa tracklist. Non c’è più un vero e proprio collante tra i brani, la differenza tra l’ascolto sequenziale e quello shuffle è sempre più sottile.
Importante non è fare un disco solido, basta mettere insieme tutti i brani sfornati singolarmente e che l’album che ne scaturisce porti a casa il risultato in termini di streaming, vendite, numeri. Il resto è solo un’accozzaglia di pippe mentali e concetti anacronistici.
Il podcast all’italiana
Mi viene in mente un parallelismo improbabile con il podcast medio italiano: uno che intervista uno su qualcosa. Ma il podcast - come mi insegna il mio amico e fratello maggiore brontolone Matteo Fini - deve avere alla base un minimo di scrittura, e questa non c’è.
Il podcast è l’intervista. Il podcast è l’ospite.
E non lo ascolti. Lo guardi.
I primi che mi vengono in mente sono: Muschio Selvaggio di Fedez, Basement di Gianluca Gazzoli e One More Time di Luca Casadei.
Al netto del fatto che non sono un grandissimo conoscitore e fruitore di podcast, mi pare che quelli mainstream abbiano questa impostazione. E la domanda che mi pongo resta più o meno la stessa nei dischi urban inzuppati di featuring: senza ospite se li ascolterebbe qualcuno? Questi cristiani avrebbero qualcosa da dire?
Considerazioni che faccio senza nemmeno troppo sviscerare profondità e conduzione delle varie interviste perché non è questa la sede ove occuparcene ma ci siamo capiti.
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Conclusioni
Insomma, il problema è evidente. L’utenza media dell’internet se ne sta accorgendo: i dischi in uscita sono infarciti di featuring per metà della tracklist e i nomi proposti sono più o meno sempre gli stessi.
Questo perché bisogna assolutamente performare. Non importa il bel giuoco, come soleva dire Silvio Berlusconi, importante è portare a casa il risultato: flexare i dischi d’oro, di platino, le vagonate di streaming, la classifica top 50 e altre amenità delle quali non ce ne dovrebbe fregare un cazzo.
Tutto fumo negli occhi di un pubblico sempre più giovane e sempre meno educato all’ascolto, come spesso mi hai sentito dire. Il trend mi sembra abbastanza chiaro: riempire, riempire, riempire. Riempire il vuoto a suon di featuring perché lo spessore artistico è sempre più prossimo a quello di una carta di credito (metafora neanche troppo casuale, ndr).
Non ascolteresti quel disco se non ci fosse tutta quella gente dentro e no, non ascolteresti quel podcast se non fosse per l’ospite. Perché chi tiene le redini (l’host o l’artista di turno) ha ben poco da dire e cadere nella noia è sempre più facile… come fare disco d’oro.